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Modello biomedico della disabilità

Il modello biomedico della disabilità

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Ad oggi esistono tre principali modelli con cui si pensa alla disabilità: il modello biomedico, il modello sociale e quello politico/relazionale (chiamato anche “Disability Justice”).

In questo articolo ci focalizzeremo sul modello biomedico.

Nel modello biomedico, il focus è posto sull’individuo. Quindi la disabilità è vista come caratteristica individuale con al più riferimenti ancillari o retorici alla dimensione sociale. Le uniche risposte immaginabili a questo modello sono la cura, la riabilitazione e la normalizzazione (sensu Cohen) obbligatoria. Tale modello è almeno in parte sovrapponibile al Charity Model che riconosce le persone con disabilità come individui bisognosi di aiuto, incapaci di fare qualsiasi cosa autonomamente.

Quello del Charity Model è il modello tipicamente usato dai media per rappresentare le persone con disabilità. Immaginate il film “Io prima di te”. Il protagonista, con disabilità, è rappresentato come un individuo triste privo di voglia di vivere. Addirittura rifiuta ogni tentativo di intrattenimento da parte della sua assistente personale. Ma di questo ne parleremo in un articolo a parte perchè il discorso sulla rappresentazione della disabilità nei media è davvero ampio.

La patologia è il punto di partenza

Oggi, il modello biomedico della disabilità rimane profondamente radicato come il modo egemone di incorniciare la disabilità – un problema che si presume sia localizzato nel cervello e/o nei corpi di persone costruite socialmente come malate attraverso un processo di medicalizzazione (Smart, 2009).

La patologia è il punto di partenza per dare un senso alla disabilità, vista come “difetto” neurochimico e/o fisiologico. Perciò quando il problema è dell’individuo, diventa responsabilità dell’individuo stesso risolvere in problema, di solito attraverso trattamenti progettati per portare il corpo e la mente il più vicino possibile alla “normalità” in modo che la persona possa adattarsi meglio alla società in cui vive ed essere come le persone non disabili.

La disabilità viene messa in forma attraverso lo sguardo della medicalizzazione: quel processo in cui la vita viene elaborata attraverso il riduttivo uso del discorso medico, e le condizioni di alterità patologizzate. Questa posizione non implica affatto che la medicina sia solo capace di limitare necessariamente il nostro pensare alla disabilità perché, come sappiamo, essa ha consentito di restituire e migliorare la vita a molte persone.

Problemi del modello biomedico

Allo stesso tempo però, la medicina “tende a demistificare e naturalizzare l’anomalia somatica, togliendo ogni significato morale e caratterizzando la variazione fisica unicamente come una questione che solo la scienza può indagare e tentare di porre rimedio” (Couser, 2011, p.23). Questa potrebbe essere una semplice citazione ma in realtà, per esperienza personale, posso affermare che la medicina ha davvero fatto passi da gigante. Basti pensare che vent’anni fa i miei genitori hanno dovuto girare tantissimi ospedali d’Italia per capire che malattia avessi e le associazioni di supporto alla disabilità erano ancora nella loro fase embrionale. Ad oggi esiste uno screening neonatale e una cura per questa malattia.

Ciò che non esiste, o non è stata approfondita, è la lotta alla discriminazione e al pregiudizio. La promozione delle pari opportunità. È come se il focus fosse posto sull’eliminazione del difetto genetico. Questo è possibile nelle generazioni odierne, nei bambini nati da qualche anno a questa parte, in cui si sono sviluppate sofisticate cure mediche. Tuttavia, i “malati vecchi” sono completamente lasciati indietro.

Qui sta il problema.

Adottando la prospettiva medica la disabilità è analizzata attraverso la sola conoscenza clinica e per tale ragione c’è il pericolo che venga vista solo ed esclusivamente attraverso una visione biologica, genetica e neurologica tralasciando le dimensioni psicologiche, sociali, religiose.

Telethon

Un simbolo emblematico del modello medico, a mio parere, è la campagna di raccolta fondi di Telethon. Ultimamente sono diventata molto critica – persino troppo forse – nei confronti di Telethon. Si tratta di un programma televisivo nel quale si presentano diverse persone con le più disparate malattie raccontando la vita con la propria patologia. Ovviamente la narrazione è sempre carica di pietismo o eroismo. Per carità, per i bambini sono stati fatti passi da gigante in ambito di cure mediche, ma non viene mai dato spazio ai ragazzi più grandi per cui la patologia è ormai irreversibile. È come se volessero cancellarci dalla faccia della terra. La vedo come pura eugenetica. È come dire “se questo individuo soffre e gli è difficile vivere allora eliminiamolo”.

Questo pensiero forse lo posso concepire per patologie degenerative ma non per altre in cui è predominante, ad esempio, la compromissione motoria. Personalmente se mi chiedessero “Elisa di cosa hai paura per il tuo futuro?” io non risponderei mai “la malattia” ma totalmente altro. Perchè la mia malattia in realtà non mi preoccupa ma mi preoccupa il fatto di rimanere senza lavoro perchè ho una disabilità, l’essere senza assistenza e senza valide assistenti, non poter viaggiare, non poter vivere davvero. La patologia di un individuo è quindi solo una piccolissima parte dell’individuo stesso.

A questo scopo istituirei un Telethon anche per il modello sociale per promuovere l’indipendenza e l’autonomia delle persone con disabilità e piuttosto per finanziare progetti di vita a livello nazionale.

Fonte: Rocco Di Santo – Sociologia della disabilità

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