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Convenzione sui diritti delle persone con disabilità

Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (CRPD)

Dalla ratifica italiana della Convenzione sui diritti delle Persone con Disabilità dell’ONU (CRPD) si sono aperti nuovi scenari dal punto di vista politico, giuridico e culturale. Da questo punto in poi le persone con disabilità non devono più chiedere il riconoscimento dei propri diritti, ma devono chiedere la loro applicazione e implementazione sulla base del rispetto dei diritti umani. Le persone con disabilità diventano così parte integrante della società, che deve garantire gli stessi diritti a tutti i cittadini per sostenere la loro “piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”.

Il Movimento mondiale delle persone con disabilità ha rivendicato da qualche decennio la lettura della propria condizione cercando di spostare l’attenzione verso il modello sociale della disabilità. L’OMS ha elaborato l’ICIDH (1980), “International Classification of Impairments Disabilities and Handicaps”, primo modello di disabilità ancorato ad un determinismo medico. Successivamente, sulla base delle Regole Standard delle Nazioni Unite (1993), l’ICF (2001), “International Classification of Functioning, Disability and Health”, elabora il modello bio‐psico‐sociale della disabilità. Tale modello introduce una dimensione dinamica della condizione delle persone con disabilità con i concetti di impoverishment/empowerment valorizzando la diversità umana e rilevando che la condizione di disabilità non deriva da qualità soggettive delle persone ma dalla relazione tra le caratteristiche individuali e le modalità attraverso le quali la società organizza l’accesso e il godimento di diritti, servizi e beni.

Questo cambiamento di valutazione della disabilità modifica la visione della loro condizione sociale:

sono le persone con disabilità che subiscono dalla società condizioni di discriminazione e di mancanza di pari opportunità, essendo sottoposte a continue violazioni dei diritti umani.

Cosa dice la Convenzione?

La Convenzione è molto chiara quando definisce la condizione di disabilità come “il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri” (Preambolo comma e). Essa sottolinea quindi che la condizione in cui vivono le persone con disabilità è a rischio continuo di violazione dei diritti umani. Ogni volta che una persona con disabilità riceve un trattamento diverso rispetto agli altri cittadini senza giustificazione, subisce una discriminazione. Ogni discriminazione è una violazione dei diritti umani.

La discriminazione può assumere la forma di discriminazione diretta (abbia lo scopo), per esempio quando si fa un reclutamento di personale escludendo le persone sorde. O forma indiretta (o l’effetto) ad esempio effettuando una prova d’esame al primo piano senza ascensore, escludendo di conseguenza chi si muove su sedia a rotelle. Perciò, tali comportamenti possono “pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo”.

Eguaglianza di opportunità

Altro importante concetto collegato a quello di discriminazione verso le persone con disabilità è quello di eguaglianza di opportunità, richiamato nell’articolo 5 della Convenzione delle Nazioni Unite. La definizione di questo concetto è contenuta nelle Regole Standard delle Nazioni Unite:

“24. Realizzare le “pari opportunità” significa rendere possibile un processo attraverso il quale le differenti società e i diversi ambienti, così come i servizi, le attività, l’informazione e la documentazione, siano resi accessibili a tutti, specialmente alle persone con disabilità. 25. Il principio dell’uguaglianza dei diritti implica che i bisogni di ognuno e di tutti gli individui sono di eguale importanza, che questi bisogni devono diventare il fondamento per la pianificazione della società e che tutte le risorse vanno impegnate in modo tale da assicurare che ogni individuo abbia le stesse opportunità per partecipare. 26. Le persone con disabilità sono membri della società e hanno il diritto di rimanere all’interno delle loro comunità. Esse dovrebbero ricevere il sostegno di cui hanno il bisogno all’interno delle ordinarie strutture per l’educazione, la salute, l’impegno e i servizi sociali”.

Inserimento/integrazione/inclusione

Utile in tal senso è riflettere su tre concetti che hanno contraddistinto l’approccio della società verso le persone con disabilità: inserimento, integrazione e inclusione.

L’inserimento riconosce il diritto delle persone con disabilità ad avere un posto all’interno della società. Tuttavia, si limita ad inserirle in un posto spesso separato dalla società stessa o in una situazione di dipendenza e di cura. La decisione su dove debbano vivere e come debbano essere trattate dipende da decisioni di altri attori (medici, operatori di istituzioni pubbliche ecc.).

L’inserimento spesso è basato su un approccio caritativo e assistenziale. La società, dunque, si assume solo la responsabilità di intervenire per la sopravvivenza e la cura delle persone con disabilità.

L’integrazione è il processo che garantisce alle persone con disabilità il rispetto dei diritti formali all’interno dei luoghi ordinari, vissuti da tutte le persone, senza però modificare le regole e i principi di funzionamento della società e delle istituzioni che li accolgono. Dietro questa definizione vi è ancora una lettura basata sul modello medico della disabilità.

L’inclusione è il concetto che prevale nei documenti internazionali più recenti. La persona con disabilità è qui considerata cittadino a pieno titolo e, quindi, titolare di tutti i diritti come gli altri cittadini. Esso è parte della società e deve godere di tutti i beni, servizi, politiche e diritti. Viene però riconosciuto che la società sia organizzata in modo da creare ostacoli, barriere architettoniche e discriminazione, che necessitano di essere rimossi e progressivamente eliminati. Quindi, grazie all’inclusione, le persone con disabilità non sono più ospiti nella società ma parte integrante di essa.

Diversi tipi di giustizia

In base al modello con cui si pensa alla disabilità possiamo fare riferimento a diversi tipi di giustizia (Nussbaum, 2002 e 2006; Alves et al. 2010), richiamati anche dalla CRPD. Secondo il modello medico le persone disabili erano relegate fuori dalle politiche ordinarie, in quanto persone da curare e assistere, affinché esse raggiungessero la completa guarigione. Questa pratica corrisponde agli interventi di riabilitazione che hanno l’obiettivo di recuperare le funzionalità perse. In realtà, per molte disabilità croniche, tali interventi possono solo stabilizzare la propria condizione risultando così trattamenti riabilitativi intensivi. Proprio per questo motivo le persone con disabilità sono spesso relegate in istituti medico‐riabilitativi.

Conseguentemente alla constatazione dell’impossibilità di guarire, il trattamento medico talvolta è accompagnato da interventi assistenziali. Il sostegno economico per l’accesso agli altri diritti viene garantito in misura molto limitata e in maniera disomogenea tra le varie Regioni. La critica al modello medico della disabilità parte proprio dal riconoscimento che le competenze dei medici si esauriscono col trattamento medico e non coprono altri aspetti della vita delle persone con disabilità. Inoltre, come sottolineato dalla CRPD, per le condizioni croniche andrebbero previsti interventi di abilitazione che dovrebbero costituire l’empowerment delle persone a partire dalle loro caratteristiche.

Il rispetto dei diritti umani

La CRPD dà vita, quindi, ad un nuovo modello di disabilità basato sul rispetto dei diritti umani conducendo a trasformazioni profonde: dalla lettura della condizione di disabilità che parte dalla patologia si passa a un’attenzione alle relazioni sociali. Dalle condizioni soggettive delle persone ci si concentra sui condizionamenti ambientali e sociali. Dal riconoscimento dei bisogni si passa al riconoscimento dei diritti. Dalla società che disabilita le persone ad una società che le abilita. Di conseguenza non si tratta più di giustizia basata su cura e assistenza ma sull’uguaglianza e la non discriminazione, sulla valorizzazione delle diversità umane, sull’empowerment delle persone discriminate e svantaggiate. Per questo motivo dovranno essere messi in campo non solo interventi di cura e assistenza ma vere e proprie politiche indirizzate al sostegno delle persone con disabilità in ambito lavorativo, dell’educazione, dei trasporti ecc.

Una nuova visione della condizione di disabilità

La nuova visione della condizione di disabilità legata all’approccio della Convenzione delle Nazioni Unite dovrebbe quindi portare ad una ridefinizione sia degli strumenti di accertamento della disabilità sia dei servizi per l’inclusione. Le persone con differenti tipi di disabilità, in questo contesto, possono aver bisogno di diversi tipi e quantità di input per il loro benessere psicofisico e sociale. Questo approccio corrisponde alla modalità basata sulle capability (capacità) di Amartya Sen che mette in evidenza che lo sviluppo di una società non può basarsi solo sulla crescita del PIL, ma risulta veramente efficace se permette lo sviluppo delle risorse umane di quel Paese. Così al concetto di riabilitazione viene aggiunto quello di abilitazione (o “capabilitazione”).

Ogni persona ha una particolare diversità funzionale (Palacios e Romanach, 2006) che può essere potenziata attraverso processi di adattamento e resilienza.

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