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Alcune considerazioni sul Progetto di Vita Indipendente

Alcune considerazioni sul Progetto di Vita Indipendente

Ci tengo a fare alcune considerazioni sul Progetto di Vita Indipendente perché è arrivato il momento di farle.

Ho pensato molto al fatto di condividere la mia situazione assistenziale sui social. Mesi di ripensamenti, in primis per poter acquietare il mio umore e i miei pensieri. Dovevo rendere tutto un po’ più razionale per poterlo raccontare.

Solitamente descrivo gli aspetti positivi della Vita Indipendente ma nella vita bisogna essere onesti e credo, quindi, vada detto tutto fino in fondo. In questo momento ci vorrebbe Maria De Filippi a raccontare la storia perché mette più pathos di me ma accontentatevi.

Succede che ad aprile 2021 sono stata ricoverata per Covid e, siccome non volevo dormire per paura di perdere il controllo del respiro reso assai faticoso, durante la notte pensavo. Lì ho capito di non essere felice e soddisfatta della mia vita. Avevo bisogno di un cambiamento. Poi è successo che sono stata dimessa dall’ospedale e ho continuato l’università, la più grande fonte di distrazione nella mia vita. Ero ormai vicina alla laurea e non potevo mollare all’ultimo. Nel mio percorso verso la consapevolezza ha poi fatto il suo lavoro la tesi. Non chiedetemi cosa sia cambiato con la tesi ma qualcosa vi assicuro che in me è cambiato.

Dopo la laurea avrei avuto qualche mese per aggiustare la mia vita. Dovevo dedicarmi a me.

Così, a fronte di una mia maggiore libertà e di un maggiore universitario per la magistrale, ho richiesto di passare da 40 a 60 ore settimanali di assistenza. Non solo il mio Progetto non è andato in Commissione UMVD (la Commissione di Valutazione) perché i fondi per la Vita Indipendente dei singoli Consorzi sono bloccati, ma mi sono anche sentita dare dell’egoista.

Ora ho da fare due semplici considerazioni.

Perché viene chiamata Vita Indipendente se un incremento di 20 ore settimanali è una cosa totalmente infattibile? Io a questo punto le chiamerei Ore Indipendenti perché vita proprio non mi sembra. Non so voi ma io, che ci tengo a precisare non sono diversa da nessuno, non vivo 8 ore al giorno e poi mi spengo. In Italia la Vita Indipendente è ridotta a un servizio e non prevede un percorso di progressiva emancipazione e partecipazione. Questo approccio apparentemente sembra razionale – dal punto di vista dei servizi – ma in realtà non coglie i processi di empowerment e la natura stessa della condizione di disabilità.

C’è stata poi un’altra cosa che mi ha ferita ed è stata la cosa più difficile da mandar giù in questi mesi. Sentirmi dire “però lei deve pensare che non è l’unica ad aver bisogno di assistenza. Non pensa che bisognerebbe dare un po’ a tutti? La media di chi ha un progetto come il suo è di circa 10 ore settimanali”. Sipario. La mia reazione ve la risparmio. Secondo i miei assistenti sociali potrei anche fare un contratto di 60 ore settimanali nei mesi in cui frequento l’università e di meno ore nei mesi in cui sono in sessione. Perché ovviamente se non frequento l’università la mia vita si annulla.

A questo punto mi chiedo: perché è tutto pensato in termini di produttività? Perché se una persona può/vuole lavorare o studiare allora merita l’assistenza mentre se volesse semplicemente vedere i propri amici di no? E soprattutto, perché qualcuno può decidere quali attività sono per me rilevanti mentre non lo può decidere per una qualsiasi altra persona? Io che lo provo sulla mia pelle questo atteggiamento paternalista ancora non lo sopporto. Io decido e agisco per me. Non capisco proprio perché qualcuno lo debba fare al posto mio.

Tutto questo non è per fare del vittimismo. Ma è per farvi capire quanto i diritti umani, in Italia, siano totalmente negati ad alcune categorie di persone. Che l’assistenza personale sia un diritto non lo dice Elisa ma una Convenzione ONU.

E pretendere un diritto non è chiedere un favore.

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