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Autoetnografia – La mia Vita Indipendente

Ricordo quando decisi di fare una tesi di ricerca – precisamente un’autoetnografia – sul Progetto di Vita Indipendente. Era una cosa che probabilmente sapevo da sempre, dal primo momento in cui mi è stato attivato questo intervento.

Qui vi voglio raccontare com’è nato tutto, o almeno ci provo.

Perchè la ricerca qualitativa

Inizialmente decisi di avere un colloquio sia con il docente di Sociologia che con quello di Metodologia delle scienze sociali, considerata la mia indecisione sul metodo di ricerca migliore da utilizzare per questo argomento. Avrei voluto fare un’analisi dei dati per evidenziare le grandi disparità di fondi erogati tra Regioni (e persino città) per il Progetto di Vita Indipendente oppure utilizzare tecniche di ricerca qualitative.

Poco dopo i due colloqui mi sono resa conto di preferire un metodo di ricerca qualitativo – di cui l’autoetnografia presente nel terzo capitolo – poiché esso permette di individuare una serie di sfumature di un determinato argomento che non potrebbero essere colte diversamente. Ho ritenuto importante dare conto anche della dimensione esperienziale e soggettiva per arricchire i dati osservati nei primi capitoli.

In realtà, ammetto, non ho scelto un metodo di ricerca qualitativo solo per i motivi citati poco sopra. Mi aveva colpito il modo di fare e di insegnare del mio relatore di tesi. Ricordo benissimo il mio pensiero durante una delle sue lezioni di Sociologia “gli chiederò un colloquio per la tesi” e così è stato. Sulla sua disponibilità e gentilezza non mi sono mai sbagliata e, anzi, lo ringrazierò sempre per avermi capita sin dall’inizio e per averci messo tanto impegno nel seguirmi nella stesura di questa tesi. Non è sicuramente da tutti rispondere alle email la sera o stare ore ad ascoltare le mille paranoie della propria tesista.

Ricordo che non sono stata convinta fino all’ultimo di voler fare un’autoetnografia. Mi sembrava troppo egocentrico e non capivo il perchè mettere al centro la mia esperienza personale.

Credo di averlo capito poi dopo

Quali motivazioni?

Le motivazioni che mi hanno spinta ad approfondire tale argomento hanno una duplice natura. L’interesse nei confronti di questo tema è nato dal momento in cui mi è stato approvato il Progetto di Vita Indipendente, precedentemente all’inizio del mio percorso universitario. Inoltre, volevo dare importanza ad un argomento poco conosciuto nel dibattito pubblico ma, a mio parere, invece, di grande importanza per il raggiungimento delle pari opportunità. Si pensa sempre che il mondo della disabilità appartenga ai disabili e basta. Ritengo invece importante far conoscere sempre di più questo mondo per promuovere l’inclusione e per far capire che anche i disabili, col giusto sostegno, possono avere una vita normale.

Perchè scrivere un’autoetnografia

Col senno di poi posso affermare di aver fatto bene a scrivere un’autoetnografia e lo rifarei altre mille volte.

Scrivere un’autoetnografia ti cambia. Cambia la tua consapevolezza. Radicalmente.

Per quel che mi riguarda mi ha fatto comprendere che la mia esperienza conta e ha rilevanza, ad esempio, ai fini del mutuo-aiuto. La mia esperienza conta perchè è anche l’esperienza di tante altre persone e perchè può essere d’aiuto per un percorso verso l’emancipazione e l’indipendenza.

Esiste un piccolo particolare che forse non ho mai raccontato a nessuno. Il giorno dopo la laurea, forte del mio ego, ho cambiato immagine del profilo sulle mie pagine social mettendo come descrizione l’ultima parte del capitolo autoetnografico della tesi. Non l’avessi mai fatto. La mia tesi è arrivata persino ad alcuni assessori che si occupano di Vita Indipendente in Regione. In poche parole, dalla pubblicazione di quel post, sono diventata un Ufficio per la Vita Indipendente dispensando consigli pratici sulla base della mia esperienza personale. Tutto questo mi rende davvero felice (e anche un po’ stanca) perché sapere di poter aiutare qualcuno mi ha da sempre resa felice. Forse è anche per questo motivo che ho deciso di aprire un sito per offrire consulenze sulla Vita Indipendente.

Quello che più mi ha cambiata è l’essere diventata consapevole dei miei diritti e, soprattutto, saperli pretendere. Perché un conto è conoscerli, un altro è esigerli. Sono due cose totalmente differenti. Grazie all’autoetnografia forse ho molta più stima e fiducia in me stessa e, oltre questo, mi rispetto molto di più come persona.

Concetto di medicina narrativa

Nell’ultimo anno accademico di triennale avevo inserito nel piano carriera il corso di Sociologia della salute. Particolarmente mi aveva colpita il concetto di medicina narrativa secondo cui è possibile analizzare, anche in modo empirico, come le persone attribuiscano senso al proprio vissuto, poiché il narrare e le narrazioni sono il modo di organizzare, interpretare e dare significato alle esperienze, dando loro senso e continuità (Bruner, 1986). Inoltre, “narrare” significa scoprire e costruire un significato, riempire i vuoti e dare loro senso, perché “la narrazione è una forma in cui l’esperienza viene rappresentata e raccontata, in cui le attività e gli eventi sono presenti in un ordine di significato e coerente, dove le attività e gli eventi sono descritti insieme alle esperienze che li accompagnano e all’importanza che dà alle persone coinvolte il senso di queste esperienze” (Good, 1994; trad. it. 1999, 214).

Questo è quello che è accaduto a me scrivendo un’autoetnografia. Scoprire e costruire un significato.

Ad oggi posso dire che mi piacerebbe scrivere un’altra autoetnografia perché credo mi faccia bene a livello di consapevolezza e perché ho ancora voglia di scoprire me stessa e migliorarmi.

Quando non avete niente da fare, scrivete un’autoetnografia per voi stessi.

Fonte: Mario Cardano, Guido Giarelli, Giovanni Vicarelli – Sociologia della salute e della medicina

Qui sotto trovate il capitolo autoetnografico della mia tesi

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